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Terra di colori e sorrisi

Capita di avere dei sogni, ma non credere veramente che si realizzeranno mai. Così è stato per me questo trekking: un sogno che non credevo sarebbe mai diventato reale.

Era il 2019, era inverno e lavoravo in un bar sulle piste da sci. Non mi piaceva granché, lo facevo perché al momento non avevo trovato di meglio. Avevo bisogno di qualcosa che mi desse una scarica di energia, nuova vita dopo una stagione monotona. Così cominciai a pensare ad un viaggio, volevo andare lontano, più possibile, vedere cose completamente diverse da tutto quello a cui siamo abituati. Il budget non era altissimo, così scartai subito il sogno africano e sud americano, e iniziai ad adocchiare l'Asia. Vietnam, India, Indonesia... Poi una pubblicità mi colpisce al cuore: Nepal. Cominciai ad informarmi, e una cosa capii subito: sarei andata in Nepal solo se avessi fatto un trekking. Non era nazione da turismo, non per me. Le opzioni erano tante e succulente, ma il tempo stringeva, mancava solo un mese, e quasi tutte le iscrizioni erano già chiuse. Trovai un'agenzia che proponeva il campo base dell'Everest... Solo a pronunciarlo mi si accapponava la pelle! Li contattai, erano stupiti, tutti gli altri avevano prenotati almeno 5 mesi prima! Dopo qualche giorno mi confermarono, erano riusciti ad inserirmi.

Mi ci volle una settimana solo per decidere cosa mettere in valigia, poi finalmente arrivò il giorno della partenza. Un treno fino a Milano, poi il lunghissimo volo a Nuova Deli e quello più breve fino a Katmandu. Qui mi sono incontrata con il resto del gruppo, abbiamo mollato le valige e ci siamo immersi nel colorato caos della capitale. Il giorno dopo un pullmino ci ha scarrozzati in un rocambolesco viaggio di 6 ore, lungo strade sterrate e strette, facendoci sudare freddo ad ogni curva ceca presa ai mille all'ora. Dal finestrino abbiamo visto scorrere il vero Nepal: baracche, fango, bambini nei campi a zappare o togliere erbacce a mano. Verso sera siamo arrivati all'aeroporto provvisorio, quello di Katmandu era in ristrutturazione, e non faceva voli per Lukla. Qui molti altri escursionisti aspettavano come noi che il bel tempo permettesse di volare, e non c'era posto per le nostre tende. Siamo stati ospitati in una baracca da un contadino locale. La sera abbiamo mostrato ai bambini meravigliati i nostri apparecchi elettronici.

Il giorno dopo finalmente il volo, su un minuscolo aereo da 20 posti, con il cotone nelle orecchie per non perdere i timpani. Con in nasi schiacciati ai finestrini abbiamo visto sfilare l'Himalaya sotto di noi. Finalmente a Lukla, partenza del trekking, inizia la nostra avventura! Sembra di essere in un altro mondo. Qui l'unico collegamento con il mondo esterno sono aerei ed elicotteri, che scaricano a Lukla tutto il necessario per la vita del popolo sherpa. Da qui in su tutto è trasportato da forza animale: cavalli, asini, yak e... uomini. Ci sono ragazzini in ciabatte che trasportano enormi carichi scaricando il peso sulla fronte, ognuno con la sua cassa che spara musica indiana a tutto volume. Noi del gruppo siamo in 7, abbiamo una guida di 21 anni e 3 portatori, il più giovane dei quali ha 15 anni ed è al suo primo ingaggio. Fare i portatori è la gavetta per poi diventare guide. Ognuno di loro porta 2 dei nostri bagagli, che possono pesare massimo 15 kg, ma nonostante il peso partivano sempre dopo di noi al mattino, ci superavano con le loro ciabatte e la musica indie e andavano a tenerci i posti nel rifugio. Erano sempre allegri, ridevano di cuore per ogni cosa, anche se non parlavano niente di inglese. Una sera abbiamo giovato tutti assieme a jenga ed è stato il massimo. Ha vinto la guida, giustamente. Può sembrare ingrato far portare il peso del proprio zaino a dei ragazzini, ma per loro è lavoro, necessario a diventare un giorno guide, e trattavano con disprezzo quei camminatori che non avevano voluto prendere con sé un portatore.

Ma torniamo al cammino. Ci sono voluti 8 giorni per arrivare alla meta. Non posso raccontare tutte le avventure, tutte le emozioni e tutte le cose viste. Sarebbero troppe. I primi giorni abbiamo attraversato vivi villaggi, pieni di colore, campi coltivati, frutta e bambini che giocavano. Ovunque ruote di preghiera e pietre ricoperte di scritte. Alzandoci di quota i villaggi si facevano più piccoli, e la cime più grandi. Abbiamo visto monasteri arroccati su speroni di roccia, mangiato piatti prelibati cucinati su minuscole stufe alimentate a sterco di yak, giocato con i bambini di una scuola, comunicato a gesti con la gente del posto e conosciuto camminatori da tutto il mondo. Arrivare al campo base è stato sì un traguardo, ma mai più di ora posso dire che è stato solo una minima parte del viaggio. La fatica della quota è stata tanta, per rendere l'idea basti pensare che solo a cambiare posizione nel letto avevo il fiatone! La fatica più grande è stata l'ultimo giorno di salita, quando siamo partiti dal rifugio più alto a 5100 m e abbiamo raggiunto la cima del Kala Pattar a 5568 m. Ci abbiamo messo tutta la mattina, è stato per me uno sforzo di volontà immane, ma che soddisfazione! Dalla cima uno spettacolo unico: Everest, Lothse, Ama Dablam....

La discesa è stata molto più rapida della salita, perché ovviamente non dovevamo più fare acclimatamento. Scendendo le comodità aumentavano, la prima sera ci siamo mangiati un hamburger, la seconda abbiamo fatto la doccia dopo più di una settimana. Ci stavamo preparando a tornare alla civiltà. Il rientro a Katmandu è stato traumatico, il caldo era soffocante. Ma ci siamo goduti l'ultima giornata tra monumenti, mercati e shopping. Poi è arrivato il triste momento di lasciare questa colorata terra, con la promessa di tornare presto....


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